Ore 19.00 Bar del Pontile - Lungomare di Lerici
Il mito greco nella psicoanalisi, interventi di Maria Rosa Calabrese, Carmen Fallone, Mario Mencarini e Nello Castaldo
di Solange Passalacqua
Alle ore 19,00 al Bar del Pontile sul Lungomare di Lerici ha avuto luogo il Simposio sulla persistenza del mito nella psicoanalisi. Hanno preso parte gli psicoanalisti Maria Rosa Calabrese, Mario Mencarini, Carmen Fallone, Nello Castaldo. Ha presenziato Adriana Bottini, traduttrice ufficiale per Adelphi delle opere di James Hillman.
(Maria Rosa Calabrese).
Gli dei sono diventati malattie. Questa frase di Jung riporta alla parola patologia, patos-logos dove patos ha una importanza estremamente magica e potente, che si è perduta e che ha lasciato il posto solo alla malattia. Jung sostiene dunque che gli dei sono finiti all’interno delle malattie e che continuano a esprimersi attraverso una serie di sintomi, che possono danneggiarci e farci stare male. La malattia è anche la nostra grande possibilità, così come sosteneva Hillman, di tornare agli dei, a tutto quello che caratterizza il rapporto con un mondo mitico, legato al Mito.
Cos’è un Mito? Un racconto speciale e magico, che ci sposta da un tempo profano, quotidiano dove le cose sono quelle che noi consideriamo logiche, razionali, legate al processo causa/effetto, dove noi possiamo constatare la Realtà, a un tempo sacro, fuori del tempo, atemporale, un tempo che continuamente si rinnova, ripetendo sempre le stesse cose, cioè uscendo dal tempo profano.
Nel mito greco il tempo cronologico e lineare era Cronos, il tempo finito, quello della vita di un essere umano. Oggi Cronos vive tantissimo in noi, siamo continuamente divorati dal tempo, è letteralmente un incubo, perché non circola: o è lentissimo quando facciamo qualcosa che non ci piace o al contrario brevissimo. Non abbiamo mai tempo per niente. Cronos è molto attivo nel nostro mondo, siamo tutti vincolati dall’orologio, spesso senza rendercene conto. Da questo, si acutizza la paura della morte, del tempo perso, del tempo sprecato.
Ma i Greci non erano schiavi di Cronos. Nell’antichità tutto era governato dal tempo sacro, dall’Aion, atemporale, fuori dalla Storia, il tempo era legato a un ciclo, legato a un eterno ritorno allo stesso punto dove si rinnovavano tutti i riti di passaggio. Era un tempo finito che però durava all’infinito. L’uomo arcaico continuamente cercava di uscire dalla Storia, perché sempre si muoveva in cerchio, simile all’Ouroboros. Muovendosi in cerchio, ogni volta cambia qualcosa, rinnovando questo movimento, facendo lo stesso passaggio in effetti qualcosa cambia. La nostra percezione è la medesima, ma qualcosa è cambiato e perché ciò avvenga, ogni volta, perché sia Sacro ci deve stupire, ci deve aprire il cuore, ci deve lasciare per un attimo fuori del tempo.
Nel Mito si può mettere d’accordo in maniera paradossale l’infinito con il finito e la rappresentazione di questo è la figura della Spirale. Da un cerchio, da un ciclo, da un concentrico si passa alla spirale, che inizia come un cerchio, ma si muove verso l’Ignoto.
Noi abbiamo a volte, nel nostro tempo ripetitivo, la percezione che avvenga qualcosa di speciale.
Il Labirinto è una dimensione speciale, dove il movimento è quasi surreale: si ha la sensazione di camminare e di essere sempre nello stesso punto. Nella danza del Labirinto, che corrisponde alla parte più profonda della nostra anima interiore, non c’è tempo lineare né ciclico, ci sono tutte e due, non esiste dualità, ma tutte le possibilità insieme. Perdere tempo per guadagnare spazio. Il tema del Labirinto è proprio questo: mi permetto di perdere tempo per allargare il mio spazio interiore. La distanza dall’entrata al centro del Labirinto è brevissima, perché la pianta iniziale è una croce lineare, ma io per arrivare al centro compio volute infinite per poter ampliare il mio interno e sottopormi a grossi nodi di fiducia: quando io giro giro giro e per un po’ non arrivo credo di avere sbagliato strada, ma se riesco a superare questo primo giro di sfiducia, succede qualcosa di miracoloso. Avere fiducia nelle svolte è l’esperienza del Labirinto. Nel Mito questo è Kairos, il momento opportuno. Non un momento sicuro e pensato, ma opportuno dal punto di vista degli dei, un salto nel buio, alla cieca.
L’analisi compie tutto questo, trasformando una storia cronologica personale in un grande mito. Nel lavoro analitico, ogni sintomo viene riferito alla dimensione mitica. E questo genera Anima.
(Mario Mencarini) Necessità del Mito
Perché la psicoanalisi si interroga sul Mito in relazione alla Psiche? Nella psiche umana continuamente sono presenti temi mitici, che si ripetono. Da sempre l’uomo utilizza il racconto mitico per ordinare il mondo caotico che lo circonda: si tratta di racconti antropogonici, dove si narra della nascita del genere umano e di racconti cosmogonici, dove si narra della nascita del mondo. Il Mito quindi ha funzione ordinatrice. Questo fare mito è un atto quotidiano: lo compiamo quando ci mettiamo a guardare il nostro album di famiglia, quando ripensiamo a fatti che appartengono alla nostra infanzia o quando entriamo in un museo e guardiamo oggetti risalenti a altre epoche lontane. In quel momento cerchiamo di collocare noi stessi rispetto a quello che stiamo guardando o a quello che stiamo pensando e ci interroghiamo sul nostro passato, familiare e sociale, per comprendere il nostro presente e prepararci al futuro. Tentiamo di dare un senso e una posizione alla nostra esistenza in questa mappa spazio-temporale. Trasformiamo il mythos in logos, parola. Fare mito diventa così collegare una parte piccola, la nostra vita, al tutto, l’universo che ci circonda.
Se analizziamo i grandi miti universali scopriamo che si svolgono tutti secondo uno schema definito. Prendendo in considerazione lo schema dell’Eroe, figura fondamentale del dirsi mitico abbiamo la nascita, l’abbandono, una situazione iniziale di inferiorità, l’avventura, il viaggio, le prove pericolose, la morte, la resurrezione, il riconoscimento e l’apoteosi.
In questo ricollegarsi al Tutto, da cui il singolo proviene, cerchiamo di sconfiggere il non senso di una esistenza scollegata dal resto che la circonda. Quando non troviamo un senso è perché questo collegamento con il Tutto non esiste. La nostra origine è da ricercarsi in questi miti, noi discendiamo da questi Eroi e da questi Dei e, se questo è vero, significa anche che qualcosa di eroico e divino è rimasto al nostro interno. Ma l’umanità, divenuta adulta, ha oramai sostituito il Mito con la razionalità: è capace così di curare le malattie o costruire una centrale nucleare. Può dirci tutto dell’essere, ma non può spiegare perché l’essere è. Divenendo adulti, sia come persone che come genere umano, rischiamo di perdere il legame con il senso che il Mito ci dà, il legame con il Tutto, con quel senso che il dirsi mitico creava dentro e intorno a noi. E quando si è adulti troppo razionali non si crede più alle favole e ci si accontenta di spiegazioni banali e, quindi si vive una vita banale.
(Carmen Fallone)
L’analista è guida verso l’esperienza conoscitiva che è molto vicina alla Sapienza dei Greci.
L’analizzante è Coreuta, che all’interno della tragedia greca, guida il Coro. Il suo passo di danza è l’uscita dell’uomo dallo stato naturale. La maschera del Coreuta infatti allude proprio al volto umano, anche se è fissa e rigida e spesso evoca l’alterità, la morte. Il Coreuta è colui che danza intorno all’altare di Dioniso, il dio delle contraddizioni e delle mille forme. Dioniso è vita fremente e vita sapiente, invita a uscire fuori da sé nel ritmo sfrenato della danza che lo celebra per arrivare all’esperienza subliminale della visione conoscitiva, l’epopteia, dove l’uomo può contemplare non il dio, ma se stesso attraverso il dio. Questo succede anche nel mito di Dioniso Zagreo: nello specchio il dio vede i Titani che vogliono ucciderlo, quindi un’immagine fremente di vita, nell’atto di donargli l’oggetto, sono lui e non sono lui. La vita vede la vita e la riconosce.
Il Coro tragico balle e canta sull’altare di Dioniso. Il luogo del Coro è quello dell’analizzante che sul divano è Coreuta e impara a esserlo. La seduta annulla il tempo quotidiano, così la vita vissuta è surreale. Le immagini stranianti che ne escono ne fanno esperienza delirante, come la danza davanti all’altare del dio. La psicoanalisi dunque recupera la sapienza originaria.
(Nello Castaldo) Animali mitici che abitano in noi
L’intervento si snoda attraverso il racconto ben noto del polpo di Tellaro. Il polpo è animale mitico, è sia animale sacro perché richiama alla religiosità (nel racconto suona le campane della chiesa) sia animale profano perché è simbolo di trasformazione. E’ l’animale del sogno di Hillman. E perché sogniamo il polpo? Perché rappresenta la nostra condizione originaria. E’ anche un animale totemico e viene mangiato durante la sagra perché l’essere umano è incapace di mantenere atteggiamenti di benevolenza nei confronti delle altre creature. Il polpo rappresenta anche il mostruoso che abbiamo dentro, piuttosto che ucciderlo sarebbe bene convivere con esso.
Curricula dei relatori
Maria Rosa Calabrese ha studiato e lavorato con Dora Kalff, amica e allieva della famiglia Jung, e fondatrice della SandPlay Therapy a Zurigo, poi ha approfondito con Martin Kalff suo figlio; è membro della società italiana di SandPlay Therapy. Docente di Archetipi dell’immaginario presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha seguito studi di psicologia analitica junghiana con Silvia Di Lorenzo e con Baumann. Ha approfondito gli studi sulla Teoria del colore di Goethe. L’incontro con Jung, Goethe e Dora Kalff, le ha permesso di tenere insieme e fondere il suo interesse per la Psiche e per l’Arte. Lavora con artisti, si interessa alle discipline orientali e è titolata a insegnare la pratica di Lama Tsultrim Allione. Lavora a Sarzana dove vive.
Mario Mencarini psicanalista e psicoterapeuta, lavora a Sarzana. Si è formato seguendo lo sviluppo del pensiero junghiano elaborato da Silvia Montefoschi, con la quale ha fondato nel 1986 il Laboratorio di Ricerche Evolutive. Con la stessa nel 1987 ha collaborato alla stesura de Il principio cosmico o Del tabù dell’incesto. Autore di pubblicazioni, seminari e conferenze, nel 1995 con la collega Giorgia Moretti ha pubblicato Alle soglie dell’infinito dove il discorso psicoanalitico viene sviluppato nel suo evolversi attraverso i principali contenuti teorici di Freud, Jung e Montefoschi.
Carmen Fallone psicanalista, lavora nel suo atelier a Saronno dove si interessa di ricerche e formazione psicoanalitica con particolare attenzione alle connessioni con la poesia, la filosofia, il mito e il teatro. E’ iscritta alle attività del movimento psicoanalitico Nodi Freudiani e all’area mediterranea di psicoanalisi, collettivo di lavoro che riunisce studiosi italiani, francesi e spagnoli.
Nello Castaldo laureato in medicina e chirurgia a Milano, specializzato in psichiatria all’Ateneo di Parma. Ha lavorato fino al 2008 a Parma. Autore di numerose pubblicazioni, è membro del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche di Roma.
Il mito greco nella psicoanalisi, interventi di Maria Rosa Calabrese, Carmen Fallone, Mario Mencarini e Nello Castaldo
di Solange Passalacqua
Alle ore 19,00 al Bar del Pontile sul Lungomare di Lerici ha avuto luogo il Simposio sulla persistenza del mito nella psicoanalisi. Hanno preso parte gli psicoanalisti Maria Rosa Calabrese, Mario Mencarini, Carmen Fallone, Nello Castaldo. Ha presenziato Adriana Bottini, traduttrice ufficiale per Adelphi delle opere di James Hillman.
(Maria Rosa Calabrese).
Gli dei sono diventati malattie. Questa frase di Jung riporta alla parola patologia, patos-logos dove patos ha una importanza estremamente magica e potente, che si è perduta e che ha lasciato il posto solo alla malattia. Jung sostiene dunque che gli dei sono finiti all’interno delle malattie e che continuano a esprimersi attraverso una serie di sintomi, che possono danneggiarci e farci stare male. La malattia è anche la nostra grande possibilità, così come sosteneva Hillman, di tornare agli dei, a tutto quello che caratterizza il rapporto con un mondo mitico, legato al Mito.
Cos’è un Mito? Un racconto speciale e magico, che ci sposta da un tempo profano, quotidiano dove le cose sono quelle che noi consideriamo logiche, razionali, legate al processo causa/effetto, dove noi possiamo constatare la Realtà, a un tempo sacro, fuori del tempo, atemporale, un tempo che continuamente si rinnova, ripetendo sempre le stesse cose, cioè uscendo dal tempo profano.
Nel mito greco il tempo cronologico e lineare era Cronos, il tempo finito, quello della vita di un essere umano. Oggi Cronos vive tantissimo in noi, siamo continuamente divorati dal tempo, è letteralmente un incubo, perché non circola: o è lentissimo quando facciamo qualcosa che non ci piace o al contrario brevissimo. Non abbiamo mai tempo per niente. Cronos è molto attivo nel nostro mondo, siamo tutti vincolati dall’orologio, spesso senza rendercene conto. Da questo, si acutizza la paura della morte, del tempo perso, del tempo sprecato.
Ma i Greci non erano schiavi di Cronos. Nell’antichità tutto era governato dal tempo sacro, dall’Aion, atemporale, fuori dalla Storia, il tempo era legato a un ciclo, legato a un eterno ritorno allo stesso punto dove si rinnovavano tutti i riti di passaggio. Era un tempo finito che però durava all’infinito. L’uomo arcaico continuamente cercava di uscire dalla Storia, perché sempre si muoveva in cerchio, simile all’Ouroboros. Muovendosi in cerchio, ogni volta cambia qualcosa, rinnovando questo movimento, facendo lo stesso passaggio in effetti qualcosa cambia. La nostra percezione è la medesima, ma qualcosa è cambiato e perché ciò avvenga, ogni volta, perché sia Sacro ci deve stupire, ci deve aprire il cuore, ci deve lasciare per un attimo fuori del tempo.
Nel Mito si può mettere d’accordo in maniera paradossale l’infinito con il finito e la rappresentazione di questo è la figura della Spirale. Da un cerchio, da un ciclo, da un concentrico si passa alla spirale, che inizia come un cerchio, ma si muove verso l’Ignoto.
Noi abbiamo a volte, nel nostro tempo ripetitivo, la percezione che avvenga qualcosa di speciale.
Il Labirinto è una dimensione speciale, dove il movimento è quasi surreale: si ha la sensazione di camminare e di essere sempre nello stesso punto. Nella danza del Labirinto, che corrisponde alla parte più profonda della nostra anima interiore, non c’è tempo lineare né ciclico, ci sono tutte e due, non esiste dualità, ma tutte le possibilità insieme. Perdere tempo per guadagnare spazio. Il tema del Labirinto è proprio questo: mi permetto di perdere tempo per allargare il mio spazio interiore. La distanza dall’entrata al centro del Labirinto è brevissima, perché la pianta iniziale è una croce lineare, ma io per arrivare al centro compio volute infinite per poter ampliare il mio interno e sottopormi a grossi nodi di fiducia: quando io giro giro giro e per un po’ non arrivo credo di avere sbagliato strada, ma se riesco a superare questo primo giro di sfiducia, succede qualcosa di miracoloso. Avere fiducia nelle svolte è l’esperienza del Labirinto. Nel Mito questo è Kairos, il momento opportuno. Non un momento sicuro e pensato, ma opportuno dal punto di vista degli dei, un salto nel buio, alla cieca.
L’analisi compie tutto questo, trasformando una storia cronologica personale in un grande mito. Nel lavoro analitico, ogni sintomo viene riferito alla dimensione mitica. E questo genera Anima.
(Mario Mencarini) Necessità del Mito
Perché la psicoanalisi si interroga sul Mito in relazione alla Psiche? Nella psiche umana continuamente sono presenti temi mitici, che si ripetono. Da sempre l’uomo utilizza il racconto mitico per ordinare il mondo caotico che lo circonda: si tratta di racconti antropogonici, dove si narra della nascita del genere umano e di racconti cosmogonici, dove si narra della nascita del mondo. Il Mito quindi ha funzione ordinatrice. Questo fare mito è un atto quotidiano: lo compiamo quando ci mettiamo a guardare il nostro album di famiglia, quando ripensiamo a fatti che appartengono alla nostra infanzia o quando entriamo in un museo e guardiamo oggetti risalenti a altre epoche lontane. In quel momento cerchiamo di collocare noi stessi rispetto a quello che stiamo guardando o a quello che stiamo pensando e ci interroghiamo sul nostro passato, familiare e sociale, per comprendere il nostro presente e prepararci al futuro. Tentiamo di dare un senso e una posizione alla nostra esistenza in questa mappa spazio-temporale. Trasformiamo il mythos in logos, parola. Fare mito diventa così collegare una parte piccola, la nostra vita, al tutto, l’universo che ci circonda.
Se analizziamo i grandi miti universali scopriamo che si svolgono tutti secondo uno schema definito. Prendendo in considerazione lo schema dell’Eroe, figura fondamentale del dirsi mitico abbiamo la nascita, l’abbandono, una situazione iniziale di inferiorità, l’avventura, il viaggio, le prove pericolose, la morte, la resurrezione, il riconoscimento e l’apoteosi.
In questo ricollegarsi al Tutto, da cui il singolo proviene, cerchiamo di sconfiggere il non senso di una esistenza scollegata dal resto che la circonda. Quando non troviamo un senso è perché questo collegamento con il Tutto non esiste. La nostra origine è da ricercarsi in questi miti, noi discendiamo da questi Eroi e da questi Dei e, se questo è vero, significa anche che qualcosa di eroico e divino è rimasto al nostro interno. Ma l’umanità, divenuta adulta, ha oramai sostituito il Mito con la razionalità: è capace così di curare le malattie o costruire una centrale nucleare. Può dirci tutto dell’essere, ma non può spiegare perché l’essere è. Divenendo adulti, sia come persone che come genere umano, rischiamo di perdere il legame con il senso che il Mito ci dà, il legame con il Tutto, con quel senso che il dirsi mitico creava dentro e intorno a noi. E quando si è adulti troppo razionali non si crede più alle favole e ci si accontenta di spiegazioni banali e, quindi si vive una vita banale.
(Carmen Fallone)
L’analista è guida verso l’esperienza conoscitiva che è molto vicina alla Sapienza dei Greci.
L’analizzante è Coreuta, che all’interno della tragedia greca, guida il Coro. Il suo passo di danza è l’uscita dell’uomo dallo stato naturale. La maschera del Coreuta infatti allude proprio al volto umano, anche se è fissa e rigida e spesso evoca l’alterità, la morte. Il Coreuta è colui che danza intorno all’altare di Dioniso, il dio delle contraddizioni e delle mille forme. Dioniso è vita fremente e vita sapiente, invita a uscire fuori da sé nel ritmo sfrenato della danza che lo celebra per arrivare all’esperienza subliminale della visione conoscitiva, l’epopteia, dove l’uomo può contemplare non il dio, ma se stesso attraverso il dio. Questo succede anche nel mito di Dioniso Zagreo: nello specchio il dio vede i Titani che vogliono ucciderlo, quindi un’immagine fremente di vita, nell’atto di donargli l’oggetto, sono lui e non sono lui. La vita vede la vita e la riconosce.
Il Coro tragico balle e canta sull’altare di Dioniso. Il luogo del Coro è quello dell’analizzante che sul divano è Coreuta e impara a esserlo. La seduta annulla il tempo quotidiano, così la vita vissuta è surreale. Le immagini stranianti che ne escono ne fanno esperienza delirante, come la danza davanti all’altare del dio. La psicoanalisi dunque recupera la sapienza originaria.
(Nello Castaldo) Animali mitici che abitano in noi
L’intervento si snoda attraverso il racconto ben noto del polpo di Tellaro. Il polpo è animale mitico, è sia animale sacro perché richiama alla religiosità (nel racconto suona le campane della chiesa) sia animale profano perché è simbolo di trasformazione. E’ l’animale del sogno di Hillman. E perché sogniamo il polpo? Perché rappresenta la nostra condizione originaria. E’ anche un animale totemico e viene mangiato durante la sagra perché l’essere umano è incapace di mantenere atteggiamenti di benevolenza nei confronti delle altre creature. Il polpo rappresenta anche il mostruoso che abbiamo dentro, piuttosto che ucciderlo sarebbe bene convivere con esso.
Curricula dei relatori
Maria Rosa Calabrese ha studiato e lavorato con Dora Kalff, amica e allieva della famiglia Jung, e fondatrice della SandPlay Therapy a Zurigo, poi ha approfondito con Martin Kalff suo figlio; è membro della società italiana di SandPlay Therapy. Docente di Archetipi dell’immaginario presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha seguito studi di psicologia analitica junghiana con Silvia Di Lorenzo e con Baumann. Ha approfondito gli studi sulla Teoria del colore di Goethe. L’incontro con Jung, Goethe e Dora Kalff, le ha permesso di tenere insieme e fondere il suo interesse per la Psiche e per l’Arte. Lavora con artisti, si interessa alle discipline orientali e è titolata a insegnare la pratica di Lama Tsultrim Allione. Lavora a Sarzana dove vive.
Mario Mencarini psicanalista e psicoterapeuta, lavora a Sarzana. Si è formato seguendo lo sviluppo del pensiero junghiano elaborato da Silvia Montefoschi, con la quale ha fondato nel 1986 il Laboratorio di Ricerche Evolutive. Con la stessa nel 1987 ha collaborato alla stesura de Il principio cosmico o Del tabù dell’incesto. Autore di pubblicazioni, seminari e conferenze, nel 1995 con la collega Giorgia Moretti ha pubblicato Alle soglie dell’infinito dove il discorso psicoanalitico viene sviluppato nel suo evolversi attraverso i principali contenuti teorici di Freud, Jung e Montefoschi.
Carmen Fallone psicanalista, lavora nel suo atelier a Saronno dove si interessa di ricerche e formazione psicoanalitica con particolare attenzione alle connessioni con la poesia, la filosofia, il mito e il teatro. E’ iscritta alle attività del movimento psicoanalitico Nodi Freudiani e all’area mediterranea di psicoanalisi, collettivo di lavoro che riunisce studiosi italiani, francesi e spagnoli.
Nello Castaldo laureato in medicina e chirurgia a Milano, specializzato in psichiatria all’Ateneo di Parma. Ha lavorato fino al 2008 a Parma. Autore di numerose pubblicazioni, è membro del Centro Italiano di Ricerche Fenomenologiche di Roma.
ore 21.30 Palco della Rotonda - Giardini di Lerici
“L’astrazione dall’estetica: ecco perché i Greci hanno saputo costruire una sapienza universale”. Lectio Magistralis di Umberto Galimberti
Di Doris Fresco
A Lerici ancora una grande serata di cultura: Umberto Galimberti, un grande filosofo, saggista e psicologo italiano contemporaneo, ieri sera è stato ospite di MythosLogos per una Lectio Magistralis che ha invaso Rotonda Vassallo. Galimberti, come sempre capace di rapire tutti i presenti con il suo linguaggio appassionato, ha accompagnato il pubblico in un viaggio sapienziale, tra Grecia e Cristianesimo.
“I greci sono stati il popolo più intelligente della terra, tuttora insuperato- inizia Galimberti- capire il senso profondo della grecità è molto difficile perché noi siamo cristiani e il cristianesimo è la massima antitesi alla grecità.” Ognuno di noi ha una natura psicologica cristiana, infatti “anche gli atei sono cristiani, come ci ha insegnato Croce, perché siamo nati in questa cultura dove della grecità non è rimasto quasi nulla anche se la cultura occidentale è il risultato di queste due correnti di pensiero.”
In sostanza, il mondo occidentale è determinato dalla modalità greca di pensare poi attraversata dalla qualità psichica di tradizione giudaico-cristiana. Per questo, spiega Galimberti “quando Nietzsche si accinge a distruggere l'occidente lo prende per la sua fonte che è Platone, colui che ha fondato il linguaggio e il modo di pensare occidentale.”
Noi ancora oggi pensiamo seguendo quei canoni della cultura Greca formulati da Platone: il principio di non contraddizione o quello di causalità.
Questo è il grande valore della grecità, quello che ha reso la cultura Greca l’unica capace di rivoluzionare e costruire una sapienza che fosse universale: “l'uomo sa, come ci racconta Platone nel Protagora, perché non conduce una vita precostituita e condizionata dagli istinti. Dice Platone che Zeus un giorno chiamò presso di se Epimeteo, in greco, colui che pensa dopo, l'improvvido, e gli affidò l'incarico di dare a tutti gli esseri viventi le loro qualità. Epimeteo dispensò a tutti gli enti di natura la propria specificità ma siccome era uno che non faceva calcolo di ciò di cui disponeva, giunto all'uomo si trovò a mani vuote; allora Zeus prese pietà degli uomini, incaricò il fratello di Epimeteo, Prometeo, colui che pensa in anticipo, e gli disse di dare agli uomini la sua virtù, cioè la previsione. Dunque gli uomini non hanno istinti perché a causa di Epimeteo per loro non era rimasto nessun codice istintuale.”
L'istinto è una risposta rigida a uno stimolo, per cui la mucca non è libera di mangiare la carne perché non la percepisce come cibo mentre è libera di mangiare l'erba vivendo secondo l'istinto di essere erbivora. L'istinto è una codificazione rigida: l'uomo, essendo carente biologicamente sotto questo profilo, è libero. “Platone, che tutti vivono come un grande spiritualista, radica la libertà dell'uomo nella carenza istintuale, per cui la libertà non scende dal cielo, nasce da una indeterminazione istintuale, l'uomo è libero perché impreciso. La tradizione tanto celebrata che definisce l’uomo un “animale ragionevole” è quanto di più scorretto dal punto di vista della mentalità greca: l'uomo non è un animale non avendo la prerogativa prima dell'animalità che si chiama codice istintuale o qualità epimeteica, come dice Platone.”
Altre differenze tra la sapienza Greca e quella Giudaico-Cristiana si scoprono nei concetto di dolore: nel Cristianesimo il dolore ha un significato duplice, che diviene anche duplice scopo. Vivendo il dolore l’uomo si redime e conquista la salvezza. Si libera e si salva, come insegna la Croce. Per la cultura Greca invece il dolore è una parte della vita: “in Grecia, la vita della natura è antitetica al desiderio umano di sopravvivere. Dopodiché gli uomini, all’interno di questo universo molto limitato che è la loro esistenza, quando il dolore non li prende possono espandere la vita il più possibile. Ma quando li prende il dolore lo devono reggere. Reggere il dolore vuol dire non mettere in scena tutte quelle scenografie del dolore che sono invece classiche del cristianesimo: mentre per il greco il dolore è costitutivo della vita, per il cristianesimo il dolore è un’espiazione di una colpa e una caparra per l’eternità. Per questo nasce tutta quell’enfasi intorno al dolore e per questo il Cristianesimo lo mette in scena. Per i cristiani il dolore ha un senso. Allora, se ti metti in una prospettiva greca, dal dolore non puoi guarire.”
Poi ci sono i concetti, spiegati dai Greci più di altri, di amore e follia, tra loro strettamente collegati. “Amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l’anima o che contamina i corpi. Amore è follia, perché è toccare con mano il limite dell’uomo. Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vari presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Non bisogna leggere Platone in modo platonico, cioè ascetico, edificante, cristiano. Non bisogna intendere la mortificazione del corpo come mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, i problemi che gli stanno a cuore sono quelli della dicibilità della indicibilità, quindi le regole della ragione e gli abissi della follia.”
Per l’ennesima volta quindi, grazie a MythosLogos, a Lerici c’è stata presentata l’occasione di esplorare la sapienza, lasciandosi rapire dalla lezione di un grande filosofo contemporaneo.
“L’astrazione dall’estetica: ecco perché i Greci hanno saputo costruire una sapienza universale”. Lectio Magistralis di Umberto Galimberti
Di Doris Fresco
A Lerici ancora una grande serata di cultura: Umberto Galimberti, un grande filosofo, saggista e psicologo italiano contemporaneo, ieri sera è stato ospite di MythosLogos per una Lectio Magistralis che ha invaso Rotonda Vassallo. Galimberti, come sempre capace di rapire tutti i presenti con il suo linguaggio appassionato, ha accompagnato il pubblico in un viaggio sapienziale, tra Grecia e Cristianesimo.
“I greci sono stati il popolo più intelligente della terra, tuttora insuperato- inizia Galimberti- capire il senso profondo della grecità è molto difficile perché noi siamo cristiani e il cristianesimo è la massima antitesi alla grecità.” Ognuno di noi ha una natura psicologica cristiana, infatti “anche gli atei sono cristiani, come ci ha insegnato Croce, perché siamo nati in questa cultura dove della grecità non è rimasto quasi nulla anche se la cultura occidentale è il risultato di queste due correnti di pensiero.”
In sostanza, il mondo occidentale è determinato dalla modalità greca di pensare poi attraversata dalla qualità psichica di tradizione giudaico-cristiana. Per questo, spiega Galimberti “quando Nietzsche si accinge a distruggere l'occidente lo prende per la sua fonte che è Platone, colui che ha fondato il linguaggio e il modo di pensare occidentale.”
Noi ancora oggi pensiamo seguendo quei canoni della cultura Greca formulati da Platone: il principio di non contraddizione o quello di causalità.
Questo è il grande valore della grecità, quello che ha reso la cultura Greca l’unica capace di rivoluzionare e costruire una sapienza che fosse universale: “l'uomo sa, come ci racconta Platone nel Protagora, perché non conduce una vita precostituita e condizionata dagli istinti. Dice Platone che Zeus un giorno chiamò presso di se Epimeteo, in greco, colui che pensa dopo, l'improvvido, e gli affidò l'incarico di dare a tutti gli esseri viventi le loro qualità. Epimeteo dispensò a tutti gli enti di natura la propria specificità ma siccome era uno che non faceva calcolo di ciò di cui disponeva, giunto all'uomo si trovò a mani vuote; allora Zeus prese pietà degli uomini, incaricò il fratello di Epimeteo, Prometeo, colui che pensa in anticipo, e gli disse di dare agli uomini la sua virtù, cioè la previsione. Dunque gli uomini non hanno istinti perché a causa di Epimeteo per loro non era rimasto nessun codice istintuale.”
L'istinto è una risposta rigida a uno stimolo, per cui la mucca non è libera di mangiare la carne perché non la percepisce come cibo mentre è libera di mangiare l'erba vivendo secondo l'istinto di essere erbivora. L'istinto è una codificazione rigida: l'uomo, essendo carente biologicamente sotto questo profilo, è libero. “Platone, che tutti vivono come un grande spiritualista, radica la libertà dell'uomo nella carenza istintuale, per cui la libertà non scende dal cielo, nasce da una indeterminazione istintuale, l'uomo è libero perché impreciso. La tradizione tanto celebrata che definisce l’uomo un “animale ragionevole” è quanto di più scorretto dal punto di vista della mentalità greca: l'uomo non è un animale non avendo la prerogativa prima dell'animalità che si chiama codice istintuale o qualità epimeteica, come dice Platone.”
Altre differenze tra la sapienza Greca e quella Giudaico-Cristiana si scoprono nei concetto di dolore: nel Cristianesimo il dolore ha un significato duplice, che diviene anche duplice scopo. Vivendo il dolore l’uomo si redime e conquista la salvezza. Si libera e si salva, come insegna la Croce. Per la cultura Greca invece il dolore è una parte della vita: “in Grecia, la vita della natura è antitetica al desiderio umano di sopravvivere. Dopodiché gli uomini, all’interno di questo universo molto limitato che è la loro esistenza, quando il dolore non li prende possono espandere la vita il più possibile. Ma quando li prende il dolore lo devono reggere. Reggere il dolore vuol dire non mettere in scena tutte quelle scenografie del dolore che sono invece classiche del cristianesimo: mentre per il greco il dolore è costitutivo della vita, per il cristianesimo il dolore è un’espiazione di una colpa e una caparra per l’eternità. Per questo nasce tutta quell’enfasi intorno al dolore e per questo il Cristianesimo lo mette in scena. Per i cristiani il dolore ha un senso. Allora, se ti metti in una prospettiva greca, dal dolore non puoi guarire.”
Poi ci sono i concetti, spiegati dai Greci più di altri, di amore e follia, tra loro strettamente collegati. “Amore non è una cosa tranquilla, non è delicatezza, confidenza, conforto. Amore non è comprensione, condivisione, gentilezza, rispetto, passione che tocca l’anima o che contamina i corpi. Amore è follia, perché è toccare con mano il limite dell’uomo. Scrive Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vari presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio». Non bisogna leggere Platone in modo platonico, cioè ascetico, edificante, cristiano. Non bisogna intendere la mortificazione del corpo come mortificazione dei piaceri, delle passioni, della sessualità. Platone guarda più in alto, i problemi che gli stanno a cuore sono quelli della dicibilità della indicibilità, quindi le regole della ragione e gli abissi della follia.”
Per l’ennesima volta quindi, grazie a MythosLogos, a Lerici c’è stata presentata l’occasione di esplorare la sapienza, lasciandosi rapire dalla lezione di un grande filosofo contemporaneo.
Le foto sono di Alberto Alcozer e Alessandro Manfredi Monguidi