Ore 18.30 - Castello di Lerici
Simposio su "Vestigia romane nel Golfo dei Poeti" con interventi di Gino Ragnetti, Gino Cabano, Enrico Calzolari e Francesco Ginocchio
di Solange Passalacqua
Alle 18.30 nella sala conferenze del Castello di Lerici si è svolto il Simposio sulle presenze romane nel nostro golfo. Sono intervenuti, con brevi interventi, gli studiosi di storia locale Gino Ragnetti, Gino Cabano, Enrico Calzolari e Francesco Ginocchio. Il giornalista Riccardo Bonvicini ha introdotto e moderato ogni intervento.
Luna di Gino Ragnetti
L’intervento si è concentrato sull’origine di Luna e su quella di Portus Lunae, considerate da Ragnetti due cose ben distinte.
Luna è un insediamento etrusco, nato come riparo e come luogo di commercio, ben prima della formazione della colonia romana. Il nome stesso, in lingua etrusca, significa appunto porto, golfo, insenatura. E la città di Spezia nel 300 a.C. è possedimento etrusco. Luna diventa famosa quando i Romani, nel 200 a.C., sconfiggono una grande colonia italica (formata da alcune popolazioni piuttosto agguerrite e desiderose di conquiste) e segnano la disfatta della potenza etrusca, allora in espansione verso il Nord Italia. Successivamente con la vittoria della prima guerra punica e la conquista di Corsica, Sicilia e Sardegna, i Romani hanno necessità di creare una flotta e, quindi, una base navale di appoggio. Nasce il Portus Lunae, punto strategico per controllare le varie tribù in rivolta (Celti, Apuani, Friniati), che è rimasto operativo per circa tre secoli.
Luna e Portus Lunae sono due luoghi diversi, come dire la città di Spezia e il suo Arsenale. Ma dove possiamo ubicare Luna e, soprattutto, dove sono finiti i suoi resti? Esiste una diatriba, tutt’ora aperta, tra gli studiosi a proposito dell’identità del Portus Lunae: alcuni sostengono che sia il Golfo di Spezia, altri che sia situato alla foce del Magra. Ci soccorre lo storico Strabone, che ci parla di corion Macra: il corion è un insediamento di tipo agricolo, difeso da una cinta e posto sul fiume Magra. Descrizione che coincide perfettamente con Luni. E sempre Strabone ci parla di Luna: Luna è città e porto, laddove la città è piccola e il porto invece molto grande. Luna era il Golfo di Spezia.
E i resti allora dove sono finiti?
Purtroppo si possono fare solo alcune ipotesi. Una risposta forse può fornirla, secondo Ragnetti, il grande ponte romano di San Vito in via Biassa: all’epoca il mare arrivava fino all’attuale piazza Beverini e il ponte attraversava una vasta area acquitrinosa, probabilmente utilizzato dall’esercito romano per spostarsi verso Luna. D’altra parte, come giustificare l’esistenza di un ponte lungo 34 metri, finemente lavorato, se non che servisse a rifornire e fare passare gli eserciti?
Anche il parroco di Marola del ‘600 ci offre qualche indizio, parlandoci di questo insediamento.
Bisogna però tenere presente, ci ricorda Ragnetti, che nel 1862, fino a oltre gli anni ’70, iniziano gli scavi per la costruzione dell’Arsenale. Gli operai non potevano certo conoscere l’importanza dei reperti che venivano alla luce: alcuni furono portati nel convento delle Clarisse in via XX settembre, ma andarono perduti a seguito di un bombardamento.
Una questione che farà discutere ancora a lungo.
Le colonne romane trovate alla Caletta di Enrico Calzolari.
Enrico Calzolari apre il suo intervento con un ricordo. Quando era giovane, e andava a fare il bagno alla Caletta, vedeva spesso una barca nera, battente bandiera tedesca, che restava ancorata lì tutta l’estate, e dalla quale regolarmente uscivano persone per le immersioni. In anni successivi, quando lui stesso prese coscienza della storia e dell’importanza del luogo, a seguito anche della distruzione di molti Cavanei e del ritrovamento della colonna romana, appare chiaro che la Caletta debba essere tutelata. In qualità di Presidente della sezione ecologica della Pubblica Assistenza di Lerici, insieme con il gruppo Italia Nostra, invia una lettera alla Sovraintendenza dei Beni Culturali per chiedere chiarimenti in merito a quegli strani “tuffi”.
La colonna romana, dopo essere rimasta due anni in arsenale per la desalinizzazione, viene inglobata nel progetto per la costruzione della nuova piazza Garibaldi, che avrebbe dovuto contenerla, in bella mostra, al centro. L’idea però fu ben presto abbandonata perché, pare, i costi per la costruzione di un basamento erano eccessi e quindi venne scelto il progetto meno caro!
Oggi, inspiegabilmente, la colonna è nell’area archeologica di Luni, quasi dimenticata.
Presenze romane nel Caprione di Gino Cabano
L’intervento di Gino Cabano è un’excursus sulle tracce delle presenze romane nel monte Caprione.
Viene ricordato il Pilastro, inglobato all’interno di uno stabilimento balneare, forse un ponte o parte di un muraglione di difesa del porto; la Villa Romana di Bocca di Magra, villa di grande pregio, su due livelli, con alcune parti pressoché intatte (il calidarium, per esempio); l’Ara di Trebiano nella chiesa di San Michele, parte di un vero e proprio altare che, probabilmente, segnava un luogo importante lungo la strada; la cisterna romana di Narbostro, formata da un unico locale di forma rettangolare, diviso da un pilastro, con due volumni ricoperti da due volte. Scoperta durante la seconda guerra mondiale e utilizzata come bunker.
Segni di Francesco Ginocchio
L’intervento di Francesco Ginocchio, a conclusione del Simposio, ha voluto sostenere le tesi esposte dai predecessori. Ha parlato ancora della colonna romana della Caletta, ricordando come fu emozionante il suo ritrovamento, ma soprattutto ha ricordato altri due luoghi dove sono presenti segni del passaggio dei Romani nel nostro territorio: Carbognano e Solaro.
Carbognano è una via d’acqua utilizzata per la presenza di mulini e bottacci (cisterne piene d’acqua). Si sa della mancanza di una maschera tragica che buttava acqua dalle fonti e della lastrina con iscrizioni romane trovata nella casa dei Fiori, che sorgeva proprio su una di queste cisterne antiche.
A Solaro, invece, abbiamo l’orto magno, un grande orto a balze, ben sostenuto da grandi mura. Una scala centrale era il fulcro di questo equilibrio architettonico. Un ottimo impianto idrico serviva ogni balza. E’ stata ritrovata una lastrina con inciso un sole celtico. Le vasche d’acqua sono tutt’ora ben conservate. Il sito doveva essere venduto a privati, ma è stato vincolato proprio grazie all’intervento di Ginocchio.
Simposio su "Vestigia romane nel Golfo dei Poeti" con interventi di Gino Ragnetti, Gino Cabano, Enrico Calzolari e Francesco Ginocchio
di Solange Passalacqua
Alle 18.30 nella sala conferenze del Castello di Lerici si è svolto il Simposio sulle presenze romane nel nostro golfo. Sono intervenuti, con brevi interventi, gli studiosi di storia locale Gino Ragnetti, Gino Cabano, Enrico Calzolari e Francesco Ginocchio. Il giornalista Riccardo Bonvicini ha introdotto e moderato ogni intervento.
Luna di Gino Ragnetti
L’intervento si è concentrato sull’origine di Luna e su quella di Portus Lunae, considerate da Ragnetti due cose ben distinte.
Luna è un insediamento etrusco, nato come riparo e come luogo di commercio, ben prima della formazione della colonia romana. Il nome stesso, in lingua etrusca, significa appunto porto, golfo, insenatura. E la città di Spezia nel 300 a.C. è possedimento etrusco. Luna diventa famosa quando i Romani, nel 200 a.C., sconfiggono una grande colonia italica (formata da alcune popolazioni piuttosto agguerrite e desiderose di conquiste) e segnano la disfatta della potenza etrusca, allora in espansione verso il Nord Italia. Successivamente con la vittoria della prima guerra punica e la conquista di Corsica, Sicilia e Sardegna, i Romani hanno necessità di creare una flotta e, quindi, una base navale di appoggio. Nasce il Portus Lunae, punto strategico per controllare le varie tribù in rivolta (Celti, Apuani, Friniati), che è rimasto operativo per circa tre secoli.
Luna e Portus Lunae sono due luoghi diversi, come dire la città di Spezia e il suo Arsenale. Ma dove possiamo ubicare Luna e, soprattutto, dove sono finiti i suoi resti? Esiste una diatriba, tutt’ora aperta, tra gli studiosi a proposito dell’identità del Portus Lunae: alcuni sostengono che sia il Golfo di Spezia, altri che sia situato alla foce del Magra. Ci soccorre lo storico Strabone, che ci parla di corion Macra: il corion è un insediamento di tipo agricolo, difeso da una cinta e posto sul fiume Magra. Descrizione che coincide perfettamente con Luni. E sempre Strabone ci parla di Luna: Luna è città e porto, laddove la città è piccola e il porto invece molto grande. Luna era il Golfo di Spezia.
E i resti allora dove sono finiti?
Purtroppo si possono fare solo alcune ipotesi. Una risposta forse può fornirla, secondo Ragnetti, il grande ponte romano di San Vito in via Biassa: all’epoca il mare arrivava fino all’attuale piazza Beverini e il ponte attraversava una vasta area acquitrinosa, probabilmente utilizzato dall’esercito romano per spostarsi verso Luna. D’altra parte, come giustificare l’esistenza di un ponte lungo 34 metri, finemente lavorato, se non che servisse a rifornire e fare passare gli eserciti?
Anche il parroco di Marola del ‘600 ci offre qualche indizio, parlandoci di questo insediamento.
Bisogna però tenere presente, ci ricorda Ragnetti, che nel 1862, fino a oltre gli anni ’70, iniziano gli scavi per la costruzione dell’Arsenale. Gli operai non potevano certo conoscere l’importanza dei reperti che venivano alla luce: alcuni furono portati nel convento delle Clarisse in via XX settembre, ma andarono perduti a seguito di un bombardamento.
Una questione che farà discutere ancora a lungo.
Le colonne romane trovate alla Caletta di Enrico Calzolari.
Enrico Calzolari apre il suo intervento con un ricordo. Quando era giovane, e andava a fare il bagno alla Caletta, vedeva spesso una barca nera, battente bandiera tedesca, che restava ancorata lì tutta l’estate, e dalla quale regolarmente uscivano persone per le immersioni. In anni successivi, quando lui stesso prese coscienza della storia e dell’importanza del luogo, a seguito anche della distruzione di molti Cavanei e del ritrovamento della colonna romana, appare chiaro che la Caletta debba essere tutelata. In qualità di Presidente della sezione ecologica della Pubblica Assistenza di Lerici, insieme con il gruppo Italia Nostra, invia una lettera alla Sovraintendenza dei Beni Culturali per chiedere chiarimenti in merito a quegli strani “tuffi”.
La colonna romana, dopo essere rimasta due anni in arsenale per la desalinizzazione, viene inglobata nel progetto per la costruzione della nuova piazza Garibaldi, che avrebbe dovuto contenerla, in bella mostra, al centro. L’idea però fu ben presto abbandonata perché, pare, i costi per la costruzione di un basamento erano eccessi e quindi venne scelto il progetto meno caro!
Oggi, inspiegabilmente, la colonna è nell’area archeologica di Luni, quasi dimenticata.
Presenze romane nel Caprione di Gino Cabano
L’intervento di Gino Cabano è un’excursus sulle tracce delle presenze romane nel monte Caprione.
Viene ricordato il Pilastro, inglobato all’interno di uno stabilimento balneare, forse un ponte o parte di un muraglione di difesa del porto; la Villa Romana di Bocca di Magra, villa di grande pregio, su due livelli, con alcune parti pressoché intatte (il calidarium, per esempio); l’Ara di Trebiano nella chiesa di San Michele, parte di un vero e proprio altare che, probabilmente, segnava un luogo importante lungo la strada; la cisterna romana di Narbostro, formata da un unico locale di forma rettangolare, diviso da un pilastro, con due volumni ricoperti da due volte. Scoperta durante la seconda guerra mondiale e utilizzata come bunker.
Segni di Francesco Ginocchio
L’intervento di Francesco Ginocchio, a conclusione del Simposio, ha voluto sostenere le tesi esposte dai predecessori. Ha parlato ancora della colonna romana della Caletta, ricordando come fu emozionante il suo ritrovamento, ma soprattutto ha ricordato altri due luoghi dove sono presenti segni del passaggio dei Romani nel nostro territorio: Carbognano e Solaro.
Carbognano è una via d’acqua utilizzata per la presenza di mulini e bottacci (cisterne piene d’acqua). Si sa della mancanza di una maschera tragica che buttava acqua dalle fonti e della lastrina con iscrizioni romane trovata nella casa dei Fiori, che sorgeva proprio su una di queste cisterne antiche.
A Solaro, invece, abbiamo l’orto magno, un grande orto a balze, ben sostenuto da grandi mura. Una scala centrale era il fulcro di questo equilibrio architettonico. Un ottimo impianto idrico serviva ogni balza. E’ stata ritrovata una lastrina con inciso un sole celtico. Le vasche d’acqua sono tutt’ora ben conservate. Il sito doveva essere venduto a privati, ma è stato vincolato proprio grazie all’intervento di Ginocchio.
Ore 21.30 Palco della Rotonda - Giardini di Lerici
Forme e figure femminili tra Grecia antica e letteratura contemporanea, lectio magistralis di Caterina Barone
di Solange Passalacqua
Questa sera, sul palco della Rotonda dei Giardini di Lerici, dopo l’accensione del braciere da parte di una studentessa del Liceo Classico T. Parentucelli di Sarzana, MythosLogos ha continuato con la lectio magistralis di Caterina Barone, docente di drammaturgia antica e di storia della filologia e della tradizione classica all’Università di Padova, autrice di saggi sul teatro greco e latino, critico teatrale per il Corriere della Sera nel Veneto. L’intervento è stato impreziosito dalle letture performate dell’attrice Susanna Salvi, della compagnia Teatro Iniziatico dell’Arthena (all’interno della quale, riveste anche il ruolo di aiuto regista), che ha prestato la voce a alcune eroine delle tragedie greche.
Forme e figure femminili nella Grecia antica dunque, ma anche la donna e la sua posizione all’interno del mondo antico sono i punti di partenza della discussione.
In particolare, nella società ateniese del V secolo, la donna era figura predisposta alla procreazione, alla cura della prole e della casa, la sua vita era separata da quella del maschio e spesso onorare la propria natura di donna significava rimanere nell’ombra. Nell’orazione di Demostene Contro Neera, si dice Abbiamo le etère per il piacere, le concubine per la cura quotidiana del corpo, le mogli per procreare figli legittimi e per custodire fedelmente la casa.
Molto diversa è invece l’eroina della tragedia greca, che riveste spesso un ruolo da protagonista o comunque molto importante all’interno della storia narrata, profondamente discordante con quello reale vissuto dalla donna all’interno della società.
A questo punto vengono analizzate tre eroine in particolare: Medea, Clitemestra e Ifigenia.
Medea
Medea, eroina dell’omonima tragedia di Euripide, è donna sapiente, barbara, dotata di un’intelligenza non comune e, quindi, ritenuta pericolosa. Lei stessa dice che proprio questa qualità attira su di sé odio e diffidenza.
Alle eroine del teatro antico sono attribuite astuzia e intelligenza, qualità percepite come deleterie e pericolose. In un’altra tragedia Euripide tratteggia una figura femminile simile a quella di Medea: nell’Ippolito. Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, trascurando completamente tutto ciò che riguarda le donne, la famiglia e la sessualità, andando anzi orgoglioso della propria verginità. Per tale motivo Afrodite, dea dell'amore, decide di punirlo suscitando in Fedra (seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito) una insana passione per il giovane. Lo sdegno di Ippolito verso il genere femminile è tale da fargli affermare che è meglio una donna da niente che una donna intelligente, che è spesso capace di compiere qualsiasi scelleratezza, specie in amore. La stessa cosa pensa Giasone. L’intelligenza di Medea è temuta perché pericolosa, sia dal punto di vista fisico perché potrebbe uccidere sia dal punto di vista morale, perché inganna prima di uccidere. La sua astuzia è forza persuasiva e capacità di inganno. Riesce a raggirare persino chi la conosce molto bene, come Creonte e Giasone. Anzi, da Creonte ottiene proprio quel giorno in più per compiere le sue nefandezze, uccidendo la rivale e i propri figli. Con dinamismo e forza di persuasione, Medea trionfa sul maschio con il logos, la parola.
Clitemestra
Clitemestra è l’eroina della tragedia Agamennone di Eschilo. Agamennone, sovrano della polis di Argo, alla partenza per la guerra di Troia, per propiziarsi gli dei (in particolare Artemide che gli era ostile) e avere venti favorevoli, su consiglio dell’indovino Calcante sacrifica la figlia Ifigenia, di bellezza eccezionale. I venti allora cominciano a soffiare e la flotta può alzare le vele. Clitemestra ha però deciso di vendicare il sacrificio della figlia, convincendo Egisto, cugino del marito e suo amante, a aiutarla in tale impresa.
La tragedia narra quindi come Agamennone, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure dalla moglie Clitennestra, con l'aiuto di Egisto.
Clitemestra è donna dalle straordinarie capacità. Viene definita donna dal cuore di maschio. Essa non dissimula la propria astuzia come Medea, ma disvela i suoi raggiri con compiaciuta violenza. Spesso la sua figura sovrasta quella dell’amante Egisto, che più volte, viene definito dal Coro con il nome di donna.
Con la guerra del Peloponneso e lo sfacelo della Grecia, gli autori greci levano voci contro la guerra, in particolare Eschilo e Euripide: la donna diventa artefice dell’azione, spesso scegliendo autonomamente il sacrificio, risolvendo i contrasti e l’uomo appare come figura negativa.
Ifigenia
La prima immagine di questa eroina è offerta dalla scena del sacrificio nell’Agamennone di Eschilo. Ma sulla sua sorte i tragici danno versioni diverse: Eschilo e Sofocle la fanno morire lì in Aulide, immolata dal padre con l’inganno. Euripide, invece, racconta che la dea la sostituisce con una cerva e la trasporta in Tauride.
Quindi abbiamo una Ifigenia in Aulide, che narra del raggiro con cui Agamennone attira madre e figlia facendo credere a entrambe che sia prossimo il matrimonio con Achille, solo per immolare la figlia e assicurarsi venti favorevoli per salpare alla volta di Troia e Ifigenia in Tauride che racconta della sostituzione della ragazza con una cerva sull’altare del sacrificio e del suo trasferimento nella terra di Tauride.
La prima figura è un’Ifigenia quasi ingenua, che si abbandona con slancio e entusiasmo alla gioia di sposare Achille, ma che poi accetta nello stesso modo di sacrificarsi per il bene del padre e della patria. La seconda figura è invece una Ifigenia fragile, timorosa della divinità, scossa dalle vicende dell’Aulide, sacerdotessa di un rito atroce: consacrare gli stranieri che poi verranno uccisi. Rimpiange continuamente la casa e la patria lontane e cova sentimenti di odio e vendetta nei confronti di Elena e Menelao che hanno causato la sua situazione sventurata. Quando arrivano in Tauride il fratello Oreste e l’amico Pilade, giunti per trafugare il simulacro di Artemide per ordine di Apollo, per placare la follia che si stava impadronendo di Oreste, la figura di Ifigenia si trasforma: essa diviene astuta e combattiva, organizza la fuga e dimostra una grande capacità oratoria convincendo il re Toante a lasciarli andare.
A questo punto, Caterina Barone cita tre autori, che in epoca più recente, hanno ripreso e trasformato il mito di Ifigenia: Racine, Goethe e Ritsos.
Racine
Racine scrive Ifigenia nel 1674. Si deve tenere presente che egli scrive per la corte di Versailles, che non vuole certo ascoltare una storia triste, tanto meno una tragedia. L’autore francese riprende quindi il mito del sacrificio, ma immagina che il finto matrimonio tra Ifigenia e Achille sia in realtà una vera storia d’amore. E inserisce anche la figura di Irifine, innamorata di Achille e quindi rivale di Ifigenia.
Ifigenia è qui una donna innamorata, pronta a morire piuttosto che abbandonare l’amato, anzi si spinge al sacrificio e alla morte proprio per la gloria dell’amato. Il lieto fine è d’obbligo, fatto apposta per la Corte, e vedrà la morte della rivale Irifine.
Goethe
Goethe scrive Ifigenia in Tauride tra il 1779 e il 1786.
Ifigenia è una donna matura, colma di nostalgia per la famiglia e la patria perdute. Lamenta continuamente il suo stato di esule in terra straniera. Essa desidera fortemente tornare nella propria terra. Ifigenia qui è icona dell’essere femminile, pietoso e dolce, capace di riequilibrare la figura maschile, votata invece alla violenza. Ifigenia è forte e decisa, con il logos risolve l’azione e incarna la via della soluzione non violenta capace di integrare le diversità. Essa senza ingannare nessuno e senza l’aiuto della divinità, riesce a convincere il re Toante a lasciarla partire con Oreste e Pilade.
Ritsos
Ritsos scrive Il ritorno di Ifigenia nel 1972. Tutto è compiuto. Ifigenia è ritornata in Argo, ma gli equilibri si sono rotti. Su tutto aleggia una sorta di immobilità esistenziale e emotiva: Pilade è partito, Oreste e Ifigenia non sanno più parlarsi. L’atmosfera che pervade la scena è surreale e onirica, il tempo è la somma di attimi frammentari, che unisce passato presente e futuro secondo il flusso di pensiero della protagonista. Si ha il crollo dell’universo epico e si disvela l’assurdità del sacrificio della fanciulla.
Forme e figure femminili tra Grecia antica e letteratura contemporanea, lectio magistralis di Caterina Barone
di Solange Passalacqua
Questa sera, sul palco della Rotonda dei Giardini di Lerici, dopo l’accensione del braciere da parte di una studentessa del Liceo Classico T. Parentucelli di Sarzana, MythosLogos ha continuato con la lectio magistralis di Caterina Barone, docente di drammaturgia antica e di storia della filologia e della tradizione classica all’Università di Padova, autrice di saggi sul teatro greco e latino, critico teatrale per il Corriere della Sera nel Veneto. L’intervento è stato impreziosito dalle letture performate dell’attrice Susanna Salvi, della compagnia Teatro Iniziatico dell’Arthena (all’interno della quale, riveste anche il ruolo di aiuto regista), che ha prestato la voce a alcune eroine delle tragedie greche.
Forme e figure femminili nella Grecia antica dunque, ma anche la donna e la sua posizione all’interno del mondo antico sono i punti di partenza della discussione.
In particolare, nella società ateniese del V secolo, la donna era figura predisposta alla procreazione, alla cura della prole e della casa, la sua vita era separata da quella del maschio e spesso onorare la propria natura di donna significava rimanere nell’ombra. Nell’orazione di Demostene Contro Neera, si dice Abbiamo le etère per il piacere, le concubine per la cura quotidiana del corpo, le mogli per procreare figli legittimi e per custodire fedelmente la casa.
Molto diversa è invece l’eroina della tragedia greca, che riveste spesso un ruolo da protagonista o comunque molto importante all’interno della storia narrata, profondamente discordante con quello reale vissuto dalla donna all’interno della società.
A questo punto vengono analizzate tre eroine in particolare: Medea, Clitemestra e Ifigenia.
Medea
Medea, eroina dell’omonima tragedia di Euripide, è donna sapiente, barbara, dotata di un’intelligenza non comune e, quindi, ritenuta pericolosa. Lei stessa dice che proprio questa qualità attira su di sé odio e diffidenza.
Alle eroine del teatro antico sono attribuite astuzia e intelligenza, qualità percepite come deleterie e pericolose. In un’altra tragedia Euripide tratteggia una figura femminile simile a quella di Medea: nell’Ippolito. Ippolito, figlio di Teseo, re di Atene, è un giovane che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, trascurando completamente tutto ciò che riguarda le donne, la famiglia e la sessualità, andando anzi orgoglioso della propria verginità. Per tale motivo Afrodite, dea dell'amore, decide di punirlo suscitando in Fedra (seconda moglie di Teseo e quindi matrigna di Ippolito) una insana passione per il giovane. Lo sdegno di Ippolito verso il genere femminile è tale da fargli affermare che è meglio una donna da niente che una donna intelligente, che è spesso capace di compiere qualsiasi scelleratezza, specie in amore. La stessa cosa pensa Giasone. L’intelligenza di Medea è temuta perché pericolosa, sia dal punto di vista fisico perché potrebbe uccidere sia dal punto di vista morale, perché inganna prima di uccidere. La sua astuzia è forza persuasiva e capacità di inganno. Riesce a raggirare persino chi la conosce molto bene, come Creonte e Giasone. Anzi, da Creonte ottiene proprio quel giorno in più per compiere le sue nefandezze, uccidendo la rivale e i propri figli. Con dinamismo e forza di persuasione, Medea trionfa sul maschio con il logos, la parola.
Clitemestra
Clitemestra è l’eroina della tragedia Agamennone di Eschilo. Agamennone, sovrano della polis di Argo, alla partenza per la guerra di Troia, per propiziarsi gli dei (in particolare Artemide che gli era ostile) e avere venti favorevoli, su consiglio dell’indovino Calcante sacrifica la figlia Ifigenia, di bellezza eccezionale. I venti allora cominciano a soffiare e la flotta può alzare le vele. Clitemestra ha però deciso di vendicare il sacrificio della figlia, convincendo Egisto, cugino del marito e suo amante, a aiutarla in tale impresa.
La tragedia narra quindi come Agamennone, di ritorno dalla guerra, venga ucciso a colpi di scure dalla moglie Clitennestra, con l'aiuto di Egisto.
Clitemestra è donna dalle straordinarie capacità. Viene definita donna dal cuore di maschio. Essa non dissimula la propria astuzia come Medea, ma disvela i suoi raggiri con compiaciuta violenza. Spesso la sua figura sovrasta quella dell’amante Egisto, che più volte, viene definito dal Coro con il nome di donna.
Con la guerra del Peloponneso e lo sfacelo della Grecia, gli autori greci levano voci contro la guerra, in particolare Eschilo e Euripide: la donna diventa artefice dell’azione, spesso scegliendo autonomamente il sacrificio, risolvendo i contrasti e l’uomo appare come figura negativa.
Ifigenia
La prima immagine di questa eroina è offerta dalla scena del sacrificio nell’Agamennone di Eschilo. Ma sulla sua sorte i tragici danno versioni diverse: Eschilo e Sofocle la fanno morire lì in Aulide, immolata dal padre con l’inganno. Euripide, invece, racconta che la dea la sostituisce con una cerva e la trasporta in Tauride.
Quindi abbiamo una Ifigenia in Aulide, che narra del raggiro con cui Agamennone attira madre e figlia facendo credere a entrambe che sia prossimo il matrimonio con Achille, solo per immolare la figlia e assicurarsi venti favorevoli per salpare alla volta di Troia e Ifigenia in Tauride che racconta della sostituzione della ragazza con una cerva sull’altare del sacrificio e del suo trasferimento nella terra di Tauride.
La prima figura è un’Ifigenia quasi ingenua, che si abbandona con slancio e entusiasmo alla gioia di sposare Achille, ma che poi accetta nello stesso modo di sacrificarsi per il bene del padre e della patria. La seconda figura è invece una Ifigenia fragile, timorosa della divinità, scossa dalle vicende dell’Aulide, sacerdotessa di un rito atroce: consacrare gli stranieri che poi verranno uccisi. Rimpiange continuamente la casa e la patria lontane e cova sentimenti di odio e vendetta nei confronti di Elena e Menelao che hanno causato la sua situazione sventurata. Quando arrivano in Tauride il fratello Oreste e l’amico Pilade, giunti per trafugare il simulacro di Artemide per ordine di Apollo, per placare la follia che si stava impadronendo di Oreste, la figura di Ifigenia si trasforma: essa diviene astuta e combattiva, organizza la fuga e dimostra una grande capacità oratoria convincendo il re Toante a lasciarli andare.
A questo punto, Caterina Barone cita tre autori, che in epoca più recente, hanno ripreso e trasformato il mito di Ifigenia: Racine, Goethe e Ritsos.
Racine
Racine scrive Ifigenia nel 1674. Si deve tenere presente che egli scrive per la corte di Versailles, che non vuole certo ascoltare una storia triste, tanto meno una tragedia. L’autore francese riprende quindi il mito del sacrificio, ma immagina che il finto matrimonio tra Ifigenia e Achille sia in realtà una vera storia d’amore. E inserisce anche la figura di Irifine, innamorata di Achille e quindi rivale di Ifigenia.
Ifigenia è qui una donna innamorata, pronta a morire piuttosto che abbandonare l’amato, anzi si spinge al sacrificio e alla morte proprio per la gloria dell’amato. Il lieto fine è d’obbligo, fatto apposta per la Corte, e vedrà la morte della rivale Irifine.
Goethe
Goethe scrive Ifigenia in Tauride tra il 1779 e il 1786.
Ifigenia è una donna matura, colma di nostalgia per la famiglia e la patria perdute. Lamenta continuamente il suo stato di esule in terra straniera. Essa desidera fortemente tornare nella propria terra. Ifigenia qui è icona dell’essere femminile, pietoso e dolce, capace di riequilibrare la figura maschile, votata invece alla violenza. Ifigenia è forte e decisa, con il logos risolve l’azione e incarna la via della soluzione non violenta capace di integrare le diversità. Essa senza ingannare nessuno e senza l’aiuto della divinità, riesce a convincere il re Toante a lasciarla partire con Oreste e Pilade.
Ritsos
Ritsos scrive Il ritorno di Ifigenia nel 1972. Tutto è compiuto. Ifigenia è ritornata in Argo, ma gli equilibri si sono rotti. Su tutto aleggia una sorta di immobilità esistenziale e emotiva: Pilade è partito, Oreste e Ifigenia non sanno più parlarsi. L’atmosfera che pervade la scena è surreale e onirica, il tempo è la somma di attimi frammentari, che unisce passato presente e futuro secondo il flusso di pensiero della protagonista. Si ha il crollo dell’universo epico e si disvela l’assurdità del sacrificio della fanciulla.
Ore 22.45 Palco della Rotonda
Premio IPAZIA ALLA NUOVA DRAMMATURGIA Festival dell'eccellenza al femminile. Consegnato a Letizia Sperzaga per l'opera Mille volte tua, di cui l'attrice Gaia De Laurentis ha letto alcuni brani. La serata è stata condotta da Giovanna Rosi, giornalista, con Consuelo Barilari, direttrice del Festival e Ferdinando Gismondi, sponsor del Premio.
Premio IPAZIA ALLA NUOVA DRAMMATURGIA Festival dell'eccellenza al femminile. Consegnato a Letizia Sperzaga per l'opera Mille volte tua, di cui l'attrice Gaia De Laurentis ha letto alcuni brani. La serata è stata condotta da Giovanna Rosi, giornalista, con Consuelo Barilari, direttrice del Festival e Ferdinando Gismondi, sponsor del Premio.
Le foto sono di Alessandro Manfredi Monguidi, Francesco Pelillo e Solange Passalacqua.